CARLOS LOPES
Basketball Coach
Incontri che ti segnano
Ci sono state diverse persone che ho incontrato nel mio percorso di allenatore fino ad ora che mi hanno segnato. A volte sono persone che entrano a far parte del tuo quotidiano, con le quali lavori o hai uno stretto rapporto, delle volte persone con le quali hai a che fare per un breve periodo di tempo ma che inevitabilmente, che tu lo capisca o meno ad impatto, ti cambieranno. Cambieranno il tuo modo di vedere ciò che ti circonda, di pensare, ma soprattutto di agire. Parlandovi da allenatore verrebbe scontato pensare che parlo unicamente di allenatori con i quali ho lavorato o abbia conosciuto, e invece, non è così. Prima ancora di arrivare in svizzera nel 1991, vi sono state due persone fondamentali nello sport e sono state un mio carissimo amico, all’epoca un vero e proprio talento con tanta grinta e determinazione nel fare bene, e mio zio che per un periodo è stata un mio saldo punto di riferimento, sempre pronto a consigliarmi. Inutile dirvi che mio zio aveva dalla sua un vita nello sport e che lui, anche se poteva averne le ragioni, ha sempre odiato mettersi in mostra preferendo l’anonimato di un amico sincero. Niente nomi e cognomi però, loro appartengono al mio privato e li rimangono, nel mio cuore così come nelle mie preghiere. Torniamo invece al 1991 quando arrivai in svizzera e approdai alle scuole medie di Bedigliora (Malcantone) in prima media.
Chi l’avrebbe detto che alla mia prima lezione, nella mia prima ora di scuola in svizzera, avrei conosciuto qualcuno che avrebbe col tempo avuto un’influenza pazzesca nel mio modo di allenare? Nessuno, sicuro, perché nemmeno io lo capii nei miei primi anni di allenatore. Mi ci vollero un buon dieci anni di attività per rendermene conto (ok delle volte sono lento a capire le cose...). La persona in questione era davanti a me e mi guardava dritto negli occhi mentre parlava. Sicuramente voleva solo accertarsi che io capissi ciò che diceva dal momento che non riuscivo ancora a mettere insieme una frase in italiano, ma capivo benissimo il suo primo discorso alla classe. Un patto chiaro, conciso e credibile. Ci disse che da uno studio che era stato fatto si era scoperto che nessun ragazzo della nostra età riusciva a star concentrato per più di quindici minuti e che quindi lui ogni quindici minuti di lavoro serio in aula ci avrebbe concesso cinque di pausa per parlare di un argomento a piacere o farci semplicemente una bella risata dopo una barzelletta. L’idea di fondo era semplice: voi date quindici minuti di lavoro serio ed impegnato a me, io in cambio ogni vi do un break o rido e mi confronto con voi cinque minuti; questo per qualsiasi venti minuti che avremmo passato insieme nei successivi quattro anni. Non erano tutte rose e fiori con questo docente, intendiamoci. Lui era nostro insegnante di Italiano, Geografia, Storia non che docente di classe e quindi l’orario scolastico, quando vi era di mezzo una di queste quattro categorie era del tutto aleatorio. Lunedì mattina iniziavamo con due ore di italiano? Magari…o magari entravi in aula e lui ti diceva: siamo avanti col programma di italiano, quindi tirate fuori il libro di storia…lo rispettavamo e stimavamo così tanto che nessuno si è mai sognato di fargli pesare questa sua gestione che per altro, a mio modo di vedere aveva sicuramente più lati positivi che negativi ma anche questo l’ho capito solo con il tempo. Parliamo di un uomo serio, elegante e che lasciava trasparire quotidianamente la sua smisurata passione per il lavoro di docente. Ma la sua dote principale era l’arte del comunicare. Quel suo discorso alla classe alla prima ora dell’anno per iniziare l’avventura delle scuole medie (per me anche di un capitolo nuovo della mia vita in un paese che sarebbe diventata la mia casa) a dei ragazzini appena usciti dalle elementari ci ha messo subito tutti nella condizione di vederlo come un punto di riferimento. Non vorrei spingermi a dire la parola “amico”, ma più una persona che non era li per sgridarti o imporsi ma che aprendo un dialogo con noi ci ha spinto se non a studiare a voler quanto meno apprendere ciò che aveva da insegnarci in ogni suo discorso. Ovviamente un punto di riferimento per tutto il percorso delle medie. La cosa più bella (della quale ovviamente non potevo rendermi conto a dodici anni) era che molto spesso quei cinque minuti di pausa ogni quindici di lavoro, non solo ci avvicinava sempre di più a lui, ma ci lasciavano delle “lezioni di vità” e ci facevano spesso riflettere ancor più dell’argomento scolastico stesso che trattavamo. L’ho incontrato per caso poco tempo fa a Cassarate e ho avuto occasione di scambiarci due parole veloci. Mi ha riempito il cuore rivederlo.
Vi starete chiedendo tutto questo cosa possa centrare con l’allenare? Beh, amici miei, unite la gestione di questo professore di scuola media ad un ragionamento di Ettore Messina che in una delle sue pubblicazioni diceva: “ non è poi tanto importante ciò che sai, ma bensì se riesci a trasmetterlo “, ed ecco che inizierete a capire un po’ meglio il mio ragionamento. Per renderla un po’ più cruda la frase di Messina dice: puoi essere il migliore allenatore del mondo, conoscere tutto di fondamentali, strategie, sistemi di gioco e quant’altro, ma se non riesci a insegnare neanche un’entrata di destro probabilmente non te ne farai mai nulla delle tue conoscenze o quanto meno non sarai mai un buon allenatore. Ho quindi rotto uno schema mentale che per molti allenatori è valido tutt’oggi ossia quello di pensare che più hai esperienza, più corsi frequenti e più il tuo grado di allenatore è alto e più sei bravo. O peggio ancora banalità del tipo che se sei un ex giocatore sarai per forza un buon allenatore. Niente di più assurdo. Ho capito invece (inizialmente del tutto incondizionatamente), che potevo sapere magari anche poco, ma quel poco che sapevo dovevo essere in grado di trasmetterlo in modo chiaro ai ragazzi che allenavo. Con il tempo è sorto anche un secondo problema non che un cliché (anche questo a mio modo di vedere purtroppo valido per molti ancora oggi), ossia quello di pensare sia giusto il ragionamento “ vi tratto tutti nello stesso modo ” che trovo invece di un’ignoranza surreale. Perché limitarsi? Il mio primo compito è quello di ottenere il massimo da ogni ragazzo e per fare questo non posso limitarmi a un unico modo di agire. Per quello ci sono già le regole scritte e non. Quelle si, danno uniformità alla tua gestione e al tuo insegnamento ma credo fermamente che se voglio ottenere il pieno coinvolgimento e il massimo rendimento dal gruppo di ragazzi che alleno la prima cosa da fare è conoscerli, entrare in contatto con loro, entrare nelle loro teste e capire chi ha bisogno di una pacca sulle spalle e sentirsi incoraggiato e chi invece ha un assoluto bisogno di un tono di voce autoritario che gli indichi con chiarezza ciò che deve o non deve fare. Certo se avessi scelto come molti altri colleghi il “ vi tratto tutti nello stesso modo ” o ancor peggio il vantarmi continuamente dei miei successi e pensando tra me e me di essere un grande allenatore il mio percorso sarebbe stato decisamente diverso e sono certo con meno soddisfazioni sportive e umane. Ho scelto invece la strada più impegnativa. Quella di riuscire a comunicare con qualsiasi tipo di ragazzo, dal ragazzo che non ha genitori a quello che è come se non li avesse. Da quello che ha i genitori divorziati a quello che ha appena perso il padre. Da quello che è introverso a quello che è esuberante e nessuno riesce o vuole gestire. Da quello che ha dei genitori che lo seguono troppo e lo condizionano in modo negativo a quello che i genitori ci sono, lo seguono e lo sostengono. Negli anni ho imparato a conoscerli tutti e a saperli capire e gestire ma ovviamente in un percorso così tortuoso di sbagli ne ho commessi tanti e sicuramente ne commetterò ancora. Ho dovuto capire spesso a mie spese e con qualche fraintendimento (con tanto di persone pronte ad attaccarmi per invidia, cattiveria o pure stupidità) la linea sottile che divide l’amico dall’allenatore. Oggi ho trovato un buon equilibrio, ma non per questo sono perfetto, anzi, sicuramente di errori, soprattutto dal momento che sono per natura una persona istintiva, ne farò ancora, ma credetemi, preferisco fare degli errori e uscire dalla mia zona di conforto, magari affrontando i miei limiti così che io possa migliorarmi ogni giorno, piuttosto che ancorarmi a dei successi dei quali saranno in pochi a ricordarsi poco tempo dopo che questi avvengano. Sembra banale lo so, ma vi posso assicurare che tutto questo processo è iniziato grazie a lui, Giovanni Braunwalder, molto più di un semplice professore.